L’incontro con il Khidr


L’incontro con Khidr

di: Etain Addey

Chi ha voltato le spalle alle modalità della società moderna e ha cercato un modo più sobrio di vivere un contatto più stretto e simbiotico con la natura, sì trova come un uomo che ritorna a casa dopo una lunga assenza. Si gira attorno, osserva i luoghi famigliari e tenta di capire in che cosa consista il suo senso di appartenenza.

Il ventesimo secolo ha sfruttato, vivisezionato e stritolato la natura, urgendo da Lei delle risposte e più abbiamo insistito per avere informazioni più ci sembra di sfuggire alla domanda più importante: noi esseri umani facciamo parte di una sacralità del mondo naturale?

In questi annidi ritorno in campagna, con una lentezza veramente incredibile, mi è sembrato di svegliarmi da un sonno, di aprire le orecchie verso quello che il mondo fisico ha da dire. Nel mezzo di un lavoro in un campo di prima mattina, tutto ad un tratto mi fermo a guardare come si leva sui boschi rossi e dorati la nebbia, simile alla marea graduale del mare. E’ talmente bello che rimango immobile a contemplare. Emile Male dice che tutto ciò che noi ora vediamo come bellezza per i Celti era religione: la foresta era divina, la nebbia era sacra. E infatti la contemplazione del mondo naturale non ci lascia con la sensazione distaccata di chi ammira, ma ci fa sentire il desiderio oscuro di essere contemplati a nostra volta, in tutti i tempi, gli esseri umani hanno voluto chiedere al divino, che intuiscono “dietro” la natura, un abbraccio, uno sguardo che li accolga: questo lo sento anch’io.

E’ che noi siamo così dìsab4tuati a tendere un orecchio verso quello che ci circonda nel mondo naturale, così intriso della presunta solitudine della coscienza umana, che non crediamo affatto che ci possa essere una risposta personale, qui e ora, da una pianta o da un animale che divide con noi questo momento su questa terra. E se la risposta arriva, non la riconosciamo neanche –sarebbe assurdo, un’idea fantasiosa che ci siamo fatti, un’aberrazione New Age.La mia esperienza invece mi dice che l’occhio della natura selvatica è ben disposto su di noi, esiste un rapporto assolutamente personale, l’intenzionalità della natura esiste e ci contempla, ma per scoprirlo bisogna sospendere il nostro cìnismo e avere la pazienza di osservare cosa succede e poi riflettere a lungo per capire i nessi. Questo “lavoro”, se lo vogliamo chiamare cos richiede una vita n cui ci sia tolto silenzio e tempo: le attività di campagna, ripetitive e ritmiche, sono utili per questo processo. Ci vuole una condizione mentale ricettiva, simile a quella del sonno, o del sogno.

Per alzare il velo, la prima cosa da fare è di cercare, almeno con noi stessi, di descrivere le esperienze senza autocensura. Marco Chiletti, contadino toscano di ritorno, cerca di insegnare ad un amico come potare un olivo e gli spiega i motivi “tecnici” per i tagli che fa sull’albero. Poi continua la potatura e l’amico gli fa notare che sta facendo dei tagli che contraddicono quello che lui ha spiegato prima. Allora Marco si è chiesto perché ricorre ad un modo di parlare impersonale “da Manuale” invece di parlare in modo più vicino alla sua vera esperienza. E’ l’abitudine, un modo per non rischiare di sembrare ridicolo anche quando stiamo con qualcuno che conosciamo bene. “Io convivo da anni con questo olivo, faccio i tagli che l’albero stesso mi suggerisce, è una conversazione fra di noi.” Se si riesce a dire questo, è già più probabile che riconosciamo la realtà che viviamo, e che ci fidiamo del nostro intuito.

La scorsa primavera, sono andata giù per un campo lontano da casa dove erano ammucchiati ginepri tagliati quell’inverno per tenere più o meno pulito un pascolo. Martin aveva preparato cataste di legna grossa per l’inverno successivo e lasciato i rami più sottili. Mi sembrava un peccato buttare quel legno così profumato e resinoso, che brucia molto bene quando è secco, e quindi ho deciso di fare laggiù le fascine di legno piccolo per il fuoco. E’ un luogo molto bello e tranquillo, gli unici rumori erano la cascata d’acqua sulla collina opposta che cadeva nel torrente Cerquetelle in fondo al campo e i versi che facevano i muli di un certo Renato mentre tiravano fuori il legno dal bosco ripido dall’altra parte del torrente. Ogni tanto passavano le pecore e gli asini, i cani mi facevano compagnia, e io là ho passato le ore della mattinata per alcune settimane. Martin era nero. Abbiamo fatto almeno sette singole litigate per questo lavoro. Secondo lui qui c’era gia un lavoro finito, e io mi stavo intromettendo, era un posto troppo lontano da casa per trasportare poi le fascine, e c’era tantissima legna dappertutto e molto più vicino a casa, c’erano altri lavori più urgenti da fare. Io a tutte queste verità avevo solo da rispondere che ci tenevo molto a fare le fascine di ginepro, che era un legno speciale, che era una questione di rispetto usarlo tutto, che avrei trasportato io le fascine con l’asino dopo, e che comunque era un posto molto bello. Mentre litigavo, io stessa mi meravigliavo del mio accanimento davanti alle ragioni valide di Martin, in fondo avevo solo una forte sensazione che era importante fare questo lavoro e non avevo motivazioni logiche da offrire. Alla fine, ho detto “Fai finta che sto male o che sono partita, perché io questo lavoro lo voglio fare e lo farò.”

E così per sei settimane mi sono immersa nelle forme dei rami e tronchi dei ginepri. Gli aghi erano ancora verdi… la mitologia sarda dice che l’anima del ginepro è così forte che rimane nell’albero per molto tempo dopo che viene tagliato. Ogni ramo messo nella fascina mi sembrava recuperato e valorizzato. C’era un forte odore di resina nell’aria, e quando le giornate di primavera eranocalde avevo l’ombra di molti grossi ginepri per ripararmi. Cercando di tagliare i rami, sono arrivata a conoscere molto bene le particolari forme che il tronco del ginepro assume, e le diverse forme dei rami, la collocazione delle bacche sulle cime, le curve, le forze e i punti di fragilità della pianta. Alla fine mi sembrava di conoscere il ginepro in quel modo intimo che sanno i bambini che giocano con i sassi e con i fiori, conoscenze di occhio e mani che non hanno niente a che fare con la botanica.

Martin faceva il pranzo e quando chiamava mi toccava affrettarmi per risalire la collina ripida verso casa. Ed ecco che man mano che passavano i giorni, l’asma che per me è compagna da sempre, da più di quarant’anni, si allentava. Respiravo meglio per la prima volta, la collina era un ostacolo che mi metteva ogni giorno meno pensiero. Questo io lo attribuivo alle ore di solitudine e di tranquillità ed è stato solo mesi dopo, sfogliando un erbario, che ho letto che il ginepro è una cura per l’asma. Ma io non avevo mangiato le bacche. Possibile che bastava la mia presenza attorno agli alberi? Poi ho ripensato alla mia tenace e irrazionale insistenza nel stare lì a fare quel lavoro. Alla fine ho pensato che anche se sembrava assurdo, erano forse stati i ginepri stessi a “chiamarmi” per fare questo lavoro di reciproco aiuto, di mutua attenzione e valorizzazione… Mi sono sentita vista e abbracciata precisamente nello stesso modo in cui era mia intenzione cogliere e riconoscere il valore del legno di ginepro. Naturalmente capisco che, volendo, è molto facile smontare questa sensazione (“è solo questo, è solo quello”) ma ho deciso di scegliere di fidarmi della mia sensazione perché vedo che la desacralizzazione della natura non ha dato buoni frutti per noi. Forse allora è bene provare a prendere per buona l’intima esperienza e vedere se, ad accordarle fiducia dentro di me, si aprono altre conversazioni silenziose.

Nelle chiese e cattedrali della Spagna, della Francia, dell’Inghilterra e della Germania tra il 1000 e il 1500, cominciarono ad apparire nelle sculture decorative una figura che il folklore inglese conosce come il “Green Man”, “l’Uomo Verde”. In verità questa è una riapparizione, perché l’Uomo Verde ha le sue origini nella figura del dio figlio, amante e guardiano della Grande Dea dell’antica Europa, quello che Marija Gimbutas chiama “il dio mascherato ittifallico”, il dio sacrificato, sepolto e rinato, il dio della vita vegetativa, l’angelo dell’albero sacro che si ritrova in tutte le culture dai Veda alla mitologia nordica e in generale in tutta l’Europa pre-cristiana, dove la religione era una religione di luogo e il luogo era foresta. Ha precedenti nella Domus Aurea a Roma, nei dipinti descritti da Vitruvius: piante con piccole figure umane sedute fra le fronde. E’ molto strano come l’immagine dell’Uomo Verde sia riuscita ad entrare ai margini della cultura cristiana, nell’arte romanica, gotica e rinascimentale, nonostante la lotta cristiana contro il culto degli alberi sacri che è continuata fino al 1200 circa. Chi osserva le sculture in pietra sulle cattedrali (di Chartres, Le Mans, Auxerre, Freiburg im Breisgau, Ulm, Bomberg, Ely, Exeter, Norwich, S.Pietro in Toscania a Viterbo e S.Maria del Mar a Barcelona, per citarne solo alcune) può vedere centinaia di esempi del suo viso composto di foglie, con foglie che escono dalla bocca e dagli occhi: è un’immagine dell’unione dell’umanità con il mondo vegetale, un’immagine di vita esuberante, dì rinnovamento e di rinascita. Il Green Man conosce le segrete leggi della natura, le foglie che escono dalla sua bocca sono il canto con cui gli spiriti degli alberi parlano con gli esseri umani, parlano dell’intelligenza e dell’intenzionalità della natura. L’Uomo Verde è il guardiano e il rivelatore di misteri silenziosi. E’ l’immagine con cui gli esseri umani hanno cercato di visualizzare la loro intima esperienza del mondo vegetale come tramite intelligente dell’anima mundi. Negli ultimi anni sono stati fatti alcuni studi della figura dell’uomo Verde: uno da Kathleen Basford nel 1978 The Green Man, (Ipswich) e l’altro, Green Man (Harper Collins) da William Anderson e Clive Hicks nel 1990. E’ interessante che questo archetipo riemerga dalle ombre ora che sta riemergendo nella coscienza umana l’immagine della Dea. Mi sembra molto importante per l’immaginario di quegli uomini che stanno cercando in questi anni di ritrovare il rapporto arcaico ma forse più cosciente con la natura. Non è possibile che la Dea rappresenti l’unica immagine positiva per il nuovo abbraccio fra la terra e l’umanità, un abbraccio che richiede un’unione fertile e gioiosa fra uomini e donne. Nella chiesa di St. Bernard de Comminges c’è una scultura in legno della Grande Madre che partorisce Uomo Verde, un’immagine molto rara della loro connessione. E chiaro che queste immagini sono sopravvissute solo perché passavano per decorazioni attorno alle immagini cristiane, ma è interessante chiedersi quale ruolo avessero nell’immaginario degli artigiani che materialmente le hanno scolpite E’ possibile che ancora nelle loro vite il rapporto fra essere umano e natura non fosse del tutto spezzato e che le correnti pagane fossero vicine alla superficie del sentimento religioso, anche se questo era apparentemente cristiano?

John Scotus Eriugena, teologo dell’Alto Medioevo, ha dato forza all’antica immagine dell’albero sacro, interpretando il Giardino dell’Eden come la natura umana e l’albero della Vita come la parola di Dio. Terence McKenna (Foodof the Gods, Bantam Books 1992) ha una tesi che, in apparenza, cambia l’enfasi in questa triade uomo-dio-pianta: lui presenta l’ipotesi che è stato proprio l’incontro dei suoi antenati primati con le piante allucinogene che gli ha offerto la possibilità di comunicare con lo spirito dietro la vegetazione, con l’anima o interiorità del mondo, e che questa esperienza del dio “dietro” il mondo fisico è stato la molla che gli ha permesso di fare il salto dal livello di vita animale a quello di essere umano pensante. Se noi vogliamo concepire dio separato dal mondo, questa tesi può sembrare blasfema. Ma se, come gli antichi, come Giordano Bruno e come molti popoli indigeni in tutto il mondo, identifichiamo il creato stesso con dio, allora è una tesi comprensibile.

William Anderson (Green Man si chiede: Come si parla con un archetipo? O piuttosto, come si fa perché l’archetipo parli con noi?” E la sua risposta è questa: “Lascia che l’immagine ti cresca dentro, tornandoci molte volte con gli umili doni dell’attenzione e del silenzio.

L’attenzione credo che sia un grande segreto. Qualche mese fa, mi sono accorta che gli episodi di vomito ed emicrania che mi capitavano inspiegabilmente erano periodici e infatti avvenivano due giorni prima delle mestruazioni. Va bene, sarà la menopausa, pensai, ma ero sconcertata: io che non ho mai sofferto per le mestruazioni, le gravidanze o i parti, ora mi tocca questo? Per fortuna da un po’ di tempo ho un vero medico, il quale mi ha dato una tintura di salvia. Allora ho preso la tintura per il primo mese, ma ho anche preso l’abitudine di passare a salutare la salvia vicino al cancello di casa e di mangiare una foglia. Bene, arriva il giorno del crollo e non crollo, sto molto meglio delle altre volte. Il secondo mese non prendo più la tintura, mangio salvia e saluto la pianta. Arriva il giorno del male e sto bene, meglio di prima. Il terzo mese non mangio più foglie di salvia, saluto solo la pianta tutti i giorni (con un pò di paura, perché se non mi ascolta e sto male, sono due giorni d’inferno) ed ecco che arriva il giorno delle mestruazioni senza il minimo disturbo. Bisogna chiedere aiuto e credere che arrivi! Devono bastare le orme dell’Uomo Verde come conferma la sua presenza. –

L’Occidente nutre ancora sospetti sulla medicina omeopatica, che usa quantità infinitesimali di sostanza naturali per guarire, ma il concetto di “sola Informazione” che passa da una pianta ad un ere umano, in altre parti del mondo fa parte di tradizioni sciamaniche. Spiega uno sciamano dell’Amazzonia: “Quando devo fare un medicinale, vado a cercare la pianta che mi aiuta e sto in silenzio li per lungo tempo. Ascolto il canto della pianta e quando l’ho imparato faccio ritorno. Preparo una bacinella d’acqua del fiume e poi, tenendo nel cuore la pianta, io canto quel canto sopra la superficie dell’acqua. Uso quell’acqua per guarire. Io faccio questo perché non tutti gli uomini hanno la capacità di ascoltare a lungo.”

Le civiltà che non hanno più un contatto diretto di questo genere evidentemente hanno rappresentato il rapporto uomo-pianta con una figura con la faccia umana fogliata perché per noi è più facile concedere intelligenza a una figura umana che non direttamente a una pianta.

L’Uomo Verde non è una percezione solo della mente europea: in tutto il mondo islamico è conosciuto la figura di Khidr. La parola significa “Quello Verde” e questa figura si erge misteriosa sulla soglia fra il mondo visibile e quello invisibile. Il mio piede lascia un’impronta verde. Arriva come luce sull’erba, come esperienza interiore, come l’abilità di lavorare ispirato senza stanchezza oltre i limiti, portato dalla passione. Khidr è la dimensione interiore che trascende la forma. Appare soprattutto all’uomo solitario, colui che è tagliato fuori dalle convenzionali tradizioni spirituali del mondo degli uomini. Ibrahim, il re che rinunciò al suo regno per la vita da mistico sufi, disse di Khidr:

“Vissi quattro anni nel deserto. Khidr, l’Antico Verde, fu il mio compagno. Mi insegno il Grande Nome di Dio.

Rumi, il poeta sufi del 1200 (contemporaneo di Francesco di Assisi) parla di khidr nella sua poesia I cani dell’amore.

Una notte un uomo chiamava Allah! Allah!

Le sue labbra diventarono dolci con le lodi

finché un cinico gli disse: aIlora! Ti ho sentito

chiamare, ma hai mai avuto risposta?

Lui non sapeva cosa rispondere

Smise dì pregare e cadde in un sonno confuso.

Sognò il khidr, la guida delle anime

in un fitto fogliame verde.

“Perché hai smesso di cantare le lodi?”

“Perché non ho mai sentito una risposta”

Questo desiderio

che tu esprimi è la risposta.

Il dolore dal quale emerge il tuo grido

ti porta all’unione.

La tua tristezza pura

che chiede aiuto

è la coppa segreta.

Ascolta il piangere del cane per il suo padrone.

Quel lamento è il flesso.

Ci sono cani d’amore

dl cui nessuno conosce i nomi.

Dai la tua vita

per essere uno di loro.

Ci sono profondi bisogni umani, con e senza nomi, e forse c’è anche il desiderio del resto del creato di essere capito e visto da un occhio umano che capisce. Non riusciamo a credere che le divinità possano essere così vicine, così “terra terra” per noi dio è ceIeste, lontano, superiore, irraggiungibile. Passo qualche settimana a vagare su un pascolo per levare con tutta la radice dei cardi gialli. (“Il più bel fiore dell’estate” disse Esiodo! E’ la carlina vulgaris.) Sono tantissimi, è inutile tagliarli e hanno delle radici di più di mezzo metro. Dopo un pò di giorni sono costretta a fermarmi perché ho il pollice gonfio per una spina. Ed è nella pausa, meditando su quell’estensione enorme dì cardi ancora da eliminare, che tutto ad un tratto capisco quale elegante sistema per il ritorno del bosco sono i cardi. Con una crescita veloce, coprono un campo con un sottile strato di spine nel giro di pochi anni, e dove loro si estendono gli animali erbivori non brucano. Così i cardi preparano un luogo per la crescita dei rovi, rosa canina e ginepri, anche loro spinosi e autoptoteggenti e lì dove questi tre sopravvivono arrivano le ginestre, e fra qualche anno, se non si interviene, ci ritroviamo con piccoli aceri, querce, frassini e carpini, e c’è un bosco che si è ricreato. Dal punto di vista della perfezione che cerca la Natura, questi cardi sono una sofisticata risposta ad una ferita. In più, se non guardati come infestanti, sono bellissimi. Potevo arrivarci senza infilare una spina nel pollice,m a il fatto è che l’improvvisa realizzazione della perfezione dei cardi l’ho avuta durante quella pausa came se la divinità della pianta mi avesse intimato “Tagliali pure, ma capisci anche la loro perfezione e bellezza, guardami con gli occhi aperti!”

E’ curioso come Uomo Verde intima il silenzio davanti all’operare della natura eppure quel fogliame che esce dalla sua bocca promette la parola, il canto, l’ispirazione. Forse quello che chiede è il rispetto, l’attenzione, il sottile udire verso la natura. Se c’è questo atteggiamento, allora succedono anche miracoli, anche il miracolo della parola umana veritiera. Se prestiamo attenzione, siamo accolti. Se ascoltiamo potremo anche profetizzare. Bisogna rispettare un antico patto tra il mondo umano e quello vegetale che ci apre gli occhi all’ìnteriorità del mondo.Il poeta inglese Henry Vàughan (1622—1695) scrisse al cugino John Aubrey che gli aveva fatto delle domande sulla tradizione dei bardi galIesi: “Mi è stato raccontato da una persona molto saggia e sobria, ora morta, che ai suoi tempi ci fu un giovane senza né padre né madre e così povero che era ridotto a chiedere l’elemosina, finché lo accolse un ricco che aveva grandi greggi di pecore sulle montagne non ‘ontano da dove abito io ora, il quale lo vestì e lo mandò in montagna a guardagli le pecore. Lassù, d’estate, seguendo le pecore e prestando le cure ai loro agnelli, cadde un giorno in un sonno profondo e sognò un giovane bellissimo con la testa coperta da glie verdi e un falco sul pugno che gli si avvicinava, fischiettando delle melodie e musica da danza per tutta la strada, e da ultimo fece volare verso di lui il falco. Il falco gli entrò in bocca e dentro il corpo e il ragazzo si svegliò di soprassalto terrorizzato e spaventato…, ma si ritrovò con un tale dono per la poesia che iniziò a girare il GaIles cantando in tutte le celebrazioni e diventò il più famoso bardo del suo tempo.”

Osservare le orme, non scartare le intime esperienze, capire in silenzio

 

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